Son viva, e a volte me ne dolgo.
Però vivo a dispetto di malattie, gesti cafoneschi, sgarberie gratuite.
Ho attraversato buona parte della mia esistenza e me stessa, terreno incolto a disposizione di predatori da due soldi.
Eppure son rimasta intonsa, forte della mia rettitudine di fondo: quella che rispedisce al mittente tutto ciò che non ha senso.
Ci vuol tanto ad essere se stessi?
Forse sì, all’inizio, cioè agli albori della coscienza.
Quando ci si mette il belletto all’anima per far contenti gli altri, per compiacerli, per dimostrare che noi, almeno noi, non deluderemo mai.
Poi certe fisime se ne vanno, più o meno lentamente, e ci tocca rimanere esattamente come siamo.
Quanto vali, e quanto valgono i tuoi sogni?
Non quelli che vivi di notte, ma ciò che costruisci durante le ore desolate che non passano mai.
Quanto valgono le tue mani?
E il colore dei capelli?
Quanto valgono le parole che conosci e usi da sempre, e quelle alle quali ti sveli, mentre esse si svelano a te?
Quanto vale un ricordo, uno talmente denso da sembrare ancora realtà?
Il bello della vita è che, passando di concerto col tempo, stravolge il nostro senso, travolgendolo.
Che cos’è la vita, se non un continuo cucire, adattare ed adattarsi, effettuare prove tecniche di sopravvivenza, dagli esercizi di autodifesa a quelli per imparare a preservare i propri spazi dai vampiri energetici che ci succhiano via dal cuore la serenità?
Infine si viene a patti con se stessi: via tutto ciò che fa male, che è passato e non serve più, se non ad imparare a proteggersi.
Già: vivere è questo.
Senza che t’avessi cercato sei ricomparso in un sogno.
Accanto a casa dei miei, mi chiedevi se avessi cambiato il numero di cellulare, pronto a darmi il tuo.
Mi spiegavi che no, non sarebbe stato mai più come prima, ma che ritrovare è meglio che perdere per sempre.
E, guardandomi negli occhi, mi mettevi un bigliettino in mano.
Poi l’irruzione di mia madre, la sua reprimenda (“è un uomo sposato), la mia corsa in preda all’ira per quell’inopportuna ingerenza, passando accanto ad un gatto sventrato, senza sangue ma ancora stranamente vivo.
Correvo (dopo quanto tempo?) e vedevo la mia schiena e le gambe in fuga.
Poi mi sono svegliata, e nel pugno chiuso non c’era niente.
Ps. Stamattina, in banca, ho provato l’impulso irrefrenabile di picchiare due aspiranti fighetti che mi stavano davanti, bloccando la cassa per un tempo incalcolabile. Di tanto in tanto uno dei due, a turno, si discostava un po’ per rispondere al cellulare, rigorosamente ad alta voce. Poi ridevano, chiacchieravano, distraevano il cassiere. Fossi stata più matta li avrei presi a calci in culo.
Fatemi comprendere: “suo figlio le darà grandi soddisfazioni” è un modo di dire generico, pour parler, di insegnanti e psicologi?
Non che sia complessivamente insoddisfatta di Riccardo: è un ragazzo molto sensibile e intelligente, caduto nelle maglie infide della depressione. Io ne sono uscita. Lui ne uscirà meglio di me per mille ragioni.
Però, ecco, che diavolo vuol dire “suo figlio le darà grandi sodisfazioni”?
Io sarei soddisfatta semplicemente di vederlo sereno, forte e sicuro.
A cosa è servito non aver voluto scegliere la fetta di torta più grande e buona?
A chi ho fatto un favore, e a chi un torto?
Spesso mi succede di maledire lo stampo rigidamente cattolico che contenne (con estrema difficoltà) la mia ribellione e le intemperanze di uno spirito inquieto.
A chi è servito il mio spirito di rinuncia? A chi lo stupido sacrificio di me stessa?